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Il suo vassallo

amore e ombra, FemDom, footworship, racconti

A sedurmi fu il suo contegno, lo sguardo fiero, la figura imponente e maestosa, la spregiudicatezza con cui, Rebecca, sapeva imporre il proprio volere.

Avevo continuamente la sensazione che fosse lei a guidarmi, a regnare sulle mie azioni, a governare l’essenza di ogni mia emozione.

Ogni mio gesto, anche quello che ritenevo il più spontaneo, finiva con l’apparirmi come mero riflesso di un suo desiderio.

La sentivo scivolare dentro me, sbocciare in ogni pensiero, ispirare i miei sogni e plasmarli.

La mia mente era come un giardino rigoglioso e lussureggiante, illuminato dal sole dei suoi passi.

La immaginavo mentre incedeva dentro me, le sue orme che ornavano la terra umida e ombrosa e la mia presenza prona, che la seguiva, che si dissetava della rugiada che si raccoglieva nel calco dei suoi passi.

“Per dipingere il tuo volto, dovrò imparare ad adorarti”, le dissi, il giorno in cui mi chiese se avrei potuto farle un ritratto.

Lei sorrise, accolse e compenetrò il senso delle mie parole senza mostrare alcuna sorpresa per esse. Era come se fossero state lì da sempre, sospese, come se attendessero solo il momento giusto per emergere dal silenzio.

Il giorno volgeva al crepuscolo, la luce sanguigna del sole, aveva lasciato dietro di sé, piccole tracce sul selciato davanti casa, una trama di gocce purpuree che brillavano sull’acciottolato, resistendo all’avanzare della penombra che era già penetrata nella stanza.

Rebecca mi osservò con avida curiosità, trattenendo, insieme a me, quell’attimo in cui mi prostrai, in cui ebbi il coraggio di lasciar libere quelle emozioni che suscitava in me.

"Mi piace la tua dolcezza e questa tua umiltà, la passione che trasmetti attraverso i tuoi modi e le tue parole", mi disse.
"È solo un frutto della terra, generato dal tepore dei tuoi passi. Non sono nulla, se non il riflesso dei tuoi occhi, solo ciò che tu mi permetti di essere ogni qualvolta mi guardi".
"È questo, ciò che desideri? Essere mio, senza esitazioni, senza difese?".
"Questo è ciò che sono e altro non potrei desiderare, se non di poter vivere, fino in fondo, la gioia di questa condizione, sentire che di essa, tu ne godi e te ne servi, disponendo del mio corpo e della mia mente".
Rebecca, dopo una breve e studiata esitazione, mi soggiogò con il lieve fruscio dei suoi piedi che si liberarono dalle scarpe.
Erano piccoli e perfetti, come dolci frutti e immaginavo quanto morbida e succosa, potesse essere la pelle candida e liscia delle sue piante.
"Non mi è mai successo, sai? Dev'essere eccitante sentire il tuo respiro soffiare sul collo del piede, la tua lingua che amorevolmente inumidisce e bagna le dita, che si dona nell'intensità del tuo sentire".
I suoi occhi mi cinsero e divennero ancor più luminosi e profondi, mentre pronunciava quelle parole.
Sentivo che la sua voglia era pari alla mia ed era commovente intuire il piacere che ci avrebbe unito.
Respirai la sua pelle fino a sentirla entrarmi dentro, e contemplai la meravigliosa fattezza del suo piede senza osare sfiorarlo.
Le mie labbra fremevano ed erano riarse. Bramare il suo sapore in quel modo era un'agonia.
Mi concentrai sull'aroma caldo e avvolgente, sulle note che serbavano della lunga giornata trascorsa al chiuso delle scarpe, di ciò che restava del profumo dei sali da bagno e delle cure quotidiane con cui li abbelliva e dava loro sollievo.
In quella fragranza potevo provare a ripercorrere le ore dei suoi giorni, sognarla nella sua intimità più segreta e vera.
Cominciai a temerlo quel bacio. Mi parve che tutta la vita che avevo vissuto, avesse termine lì, ai suoi piedi, che dopo vi potesse essere solo la morte.
L'avrei adorata, sarei stato suo, e nulla avrebbe avuto più senso, sarei stato svuotato, non mi sarebbe rimasto altro da desiderare, se non la mia fine, attraverso lei.
E allora sarebbe stato dolce perire, per mano sua, sotto i suoi piedi, diventare terra, su cui lei avrebbe impresso l’orma dei suoi passi.

L'avrei invocata quella morte e avrei espresso un ultimo desiderio, mentre la vita usciva via, all'ombra dei suoi occhi, con il suo piede premuto sulla mia gola, che svelava quanta forza vi fosse nella sua delicata fragilità.
Con l'ultimo fiato l'avrei implorata, non per chiedere di essere risparmiato, bensì per pregarla di non avere alcuna remora a servirsi del mio corpo, a far di esso un comodo scendiletto, un paio di scarpe eleganti, qualsiasi cosa, purché mi fosse concesso che la mia pace, fosse sotto i suoi piedi.
Rebecca era dolce, amorevole, non poteva immaginare la follia di quei pensieri, ma sentiva l'ardore del mio desiderio e lasciava che la avvolgesse, che esplodesse nel suo ventre, mentre attendeva quel bacio umido per raccoglierlo e stringerlo tra le dita.
"Sono il tuo servo. Abbi pietà di me", le dissi e la sentii fremere, mentre si offriva e accoglieva la devozione della mia lingua.
"Non un servo, ma un nobile vassallo. Questo è ciò che voglio", ribatté lei, cercando di trattenere quel piacere che offuscava la ragione.
"Per quanto nobile io possa essere, non vi sarà mai nulla di più onorevole, per me, che stare ai vostri piedi alla stregua di un umile servo, di un cane che accorre a ogni vostro cenno".
Levai lo sguardo verso di lei e la vidi sorridere, compiacersi per quell'immagine.

Cercai di carpirla, di compenetrare quale emozione provasse nel vedermi così, nel considerarmi come se fossi il suo cane.
"Stimi di valere così poco, mio devoto servitore?".
"Tutt'altro, mia Signora. Nel ritenermi degno di un simile privilegio, potrei semmai peccare di presunzione. Quale uomo può ritenere di essere talmente grande, da poter anche solo desiderare che voi ne facciate il vostro cane?".
"Il nobile vassallo che io desidero, senza dubbio".
"E tale oso reputarmi, se ho l'ardire di stare in vostra presenza e di adorarvi, mia Signora".
Leccai i suoi piedi e considerai l'intensità di quel gesto, il legame che avrebbe potuto generare.
Fino a che punto, avrei potuto comunicare a Rebecca l'essenza del mio desiderio, la mia volontà di appartenerle in quella fisicità ancestrale?
Avrebbe accettato di servirsi di me, di mettere da parte una moralità artefatta e godere liberamente del proprio potere, della complicità della mia remissione?
Il suo piede mi nutriva, ma reagiva passivamente alle carezze della mia lingua e speravo di poterle suggerire la possibilità di spingersi oltre, di indurla a prendere in mano le redini di quella passione, di far di me, lo strumento della sua volontà e del suo piacere.
Potevo sperare, confidare nella consapevolezza che aveva di sé, nel suo porsi come una Dea e forse dovevo attendere di esser degno che lei mi plasmasse, offrirmi con sempre maggiore umiltà e devozione, affinché lei decidesse di farlo.
Per questo, non tentai di sollevare i suoi piedi per giungere alla pianta. Continuai a baciarli e leccarli, mentre erano saldamente ancorati al suolo, bagnando perfino il pavimento attorno ad essi, nel tentativo, inesausto, di ricoprire ogni lembo della sua pelle coi miei baci adoranti.
Potevo reprimermi, temere di spingermi troppo oltre? O dovevo forse esibire, con orgoglio, la mia condizione di sudditanza?
Nella sua immobilità, la sentivo ugualmente vibrare per quel piacere ed ero certo che la sua non fosse assenza di partecipazione, bensì la volontà di assaporare ancora quell’attimo, l’attesa che vibrava come una silenziosa melodia.

 

 

© Charmel Roses

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