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La Dimora

racconti FemDom, footworship, matriarcato, ginarchia

"In quali e quanti modi?", mi chiedevo. E mi pareva di vederla, comodamente seduta nella sua poltrona.
I piedi nudi, caldi, appena usciti dalle scarpe. Con grazia allargava e muoveva le dita. Immaginava e sentiva il mio respiro, l'umido della mia lingua, il mio volto che si prestava ad essere naturale appoggio per far riposar le sue piante.
Sorrideva, snocciolava le parole, i silenzi. Masticava e assaporava ciò che era detto, ciò che restava taciuto e brillava nel fremito di uno sguardo.
Ed io sempre lì, sotto i suoi piedi. Non poteva esserci altro posto più appropriato in cui potessi stare ed era piacevole che lei mi vedesse così, esattamente come anch'io mi vedevo.
Sotto i suoi piedi, per essere calzato, usato, per leccarle la pianta, le dita e vederla sorridere e godere della mia fame che non poteva saziarsi e che era anche sua, della sua voglia di avermi così, prostrato e arreso sotto di lei.
Oh, sì, era piacevole immaginarla così, intuire l'espressione compiaciuta e trionfante, arrogante e pur sempre misericordiosa.
"Sì, lo sei. Sei il mio schiavo", pareva dicesse, divertita dalla prostrazione, il rapimento con cui la vagheggiavo.
Era quella frase, così semplice, quasi infantile: "Sei il mio schiavo", l'essenza del suo potere, la profonda e intima consapevolezza della mia natura e della sua capacità di disporne, onorarla, tutelarla.
"Sei il mio schiavo", avrebbe amato ripetermi, inducendomi a scodinzolare come un cane festoso, ma anche ad arrossire, con fare timido e puerile.
Avrebbe potuto dirlo, ripeterlo, divertirsi a farmi fremere e gioire, mentre le dita dei suoi piedi giocherellavano sul mio viso e nella mia bocca.
E come un cucciolo, le avrei abbracciato i piedi, li avrei premuti forte sul mio volto e li avrei succhiati, per nutrirmi, per poter essere felice.
Era diventata una presenza assidua. Aveva cominciato a passeggiare nella solitudine dei miei sogni, a far sì che divenissero un piccolo giardino, o orto, che mi era concesso di coltivare in suo onore, sul retro della sua dimora. Ed ogni giorno, attendevo il suo arrivo e mi prodigavo affinché, di quei sogni, lei fosse soddisfatta.
Le immagini che sognavo, allora, mutavano. Divenivano ombra dei suoi desideri, tributo che le offrivo, grato di compiacerla, di considerarla non solo protagonista, ma anche artefice di quei sogni e delle emozioni con cui la vagheggiavo.
Non sapevo dove mi avrebbe condotto quel pensiero. Talvolta cercavo di arginarlo, combatterlo, ma lo sentivo talmente radicato in me, che non potevo trattenermi dal tornare a celebrarlo, invocarlo, recitare le mie preghiere, abbandonarmi alla tenera e intima voluttà di poter confessare la mia remissione, la necessità e la gioia di prostrarmi e umiliarmi, orgogliosamente, per lei, di appartenerle e dipendere interamente dal suo volere.
E lei, mentre sorrideva e snocciolava le mie parole, poteva sentire il fervore e l'impeto di queste emozioni. Poteva compiacersi della mia anima tesa, febbricitante, tormentata. La accarezzava, ascoltava, faceva vibrare. Ed io ero certo che detenesse un potere assoluto su di essa, che potesse farne ciò che voleva e amasse vederla sussultare, darle conferma di ciò che sapeva.
Il mio, era il più alto grado di sottomissione, pari a quello del devoto che si umilia e prega la sua Dea, senza chiedere nulla, se non che lei lo ascolti, che gli consenta di esibire la propria remissione, di celebrare la sua gloria attraverso i riti della propria devozione.
Sì, poteva essere così. Poteva bastare. Ma lei era più di una Dea, era una Donna. E s'insinuava, con prepotenza, la voglia di contemplare il suo sguardo che mi sovrastava, di sentir colare e scorrere le gocce dei suoi baci della sua bocca. Di godere della grazia e l'impeto con cui avrebbe sfregato i piedi sul mio volto, di conoscere il tepore, l'aroma, il sapore delle sue piante, di sapere quanto dolce sarebbe stato leccarle.
Immaginavo d'incontrarla. Cos'avrei fatto? Come mi sarei rivolto a lei?
Mi eccitava l'idea di poter esibire subito la mia remissione. Di salutarla con un inchino, un baciamano. No, quando sognavo esageravo, non avevo pudore. In ginocchio, baciandole la punta della scarpa, così, avrei voluto salutarla, incurante di chi ci guardava.
Era solo un sogno, un'idea, qualcosa che non avrei potuto realizzare.
Lei lo sapeva. Forse non conosceva bene le ragioni, non poteva intuirle ed io non le avrei dette.
Un sogno. E che importava? In quel sogno lei mi possedeva. Poteva sapermi suo, più di chiunque altro, più di quanto le fosse mai capitato. Lo sapeva, lo sentiva ed era questo, il senso, l'essenza del sogno che condividevamo, di tutti quei pensieri che le confessavo, di cui lei sola, conosceva le sfumature, i dettagli.
Possedeva i miei segreti, i miei sogni. Ed io ero sempre lì, steso sotto i suoi piedi, mentre lei snocciolava e gustava le mie parole, ed entrambi godevamo delle infinite possibilità, del suo ergersi vittoriosa, della mia umiltà e remissione che amava celebrare la sua gloria.
Io, vinto dai suoi piedi, sotto i suoi piedi mi sentivo un vincitore. E quanto più grande era il suo trionfo, tanto più nobile era la mia sottomissione.
Quel sogno, il mio giacere sotto di lei, era diventata una necessità. Mi aveva riconosciuto come suo schiavo e, come tale, mi aveva marchiato. In alcun modo, io potevo cessare di rivolgermi a lei, di vagheggiarla come mia Signora e Padrona.
Sul mio volto, in ogni istante, anche quando fingevo di dimenticarla, era sempre presente l'ombra del suo piede.
Non sarebbe più andato via. Era il sigillo che custodiva i miei pensieri più intimi a veri, quelli su cui lei aveva danzato, che aveva accolto e nutrito con la misericordia del suo riso.

 

 

© Charmel Roses

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