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La Signora

FemDom, foot worship

Veronica, la notai in un giorno qualunque, un giorno fra tanti, nella noia fumosa e distratta della vita di provincia.

Mi ero trasferito da poco in quel piccolo paesino. Ero il cittadino, il forestiero ed ero incapace di adattarmi e far parte di quel contesto che mi respingeva e verso cui, io stesso, mi sentivo totalmente estraneo.

L’incontro con Veronica, fu la prima cosa bella che mi capitò e fu alquanto strano poter trovare, in quell’ambiente così arretrato e distante, il barlume di un sogno, il presentimento di un reciproco riconoscersi.

Mi apparve subito, come una persona colta, raffinata, che emergeva e brillava su quella realtà così rozza. Essendo nata e cresciuta in quel paesino, il suo essere così differente, non era percepito come qualcosa di estraneo, come poteva avvenire nel mio caso, al contrario, suscitava profondo rispetto e ammirazione in chi la circondava.

Sembrava suscitare, in chi si rivolgeva a lei, un sentimento che poteva definirsi quasi di sudditanza e prostrazione. E ciò alimentò, ancor di più, le fantasie che cominciai a tessere, ammirandola e desiderandola in silenzio.

Per me, Veronica, divenne la Signora, con quest’appellativo mi rivolgevo a lei, nell’intimità dei miei sogni.

Ciò che mi rendeva estraneo e odioso a gran parte degli abitanti del paese, rappresentò motivo d’interesse per Veronica e mi consentì, inaspettatamente, di avvicinarla, in un certo senso, grazie alla mia unicità, di poterla tentare e sedurre, spingendola a desiderarmi come suo vassallo.

Era una fantasia, la mia, che ritenevo irrealizzabile, considerando che, dopotutto, anche Veronica era una donna di paese e di certo non poteva condividere quei desideri così insoliti e scellerati.

La seguivo a distanza, senza osare rivolgerle la parola, come una sorta di ammiratore segreto, ma in un ambiente così ristretto e angusto come quello in cui ci trovavamo, non era facile passare inosservato e lei non ebbe alcuna difficoltà ad accorgersi di me e dei miei sguardi insistenti.

Sicuramente, aveva sentito già parlare di me, io ero quello venuto da fuori, una specie di attrazione curiosa, da studiare con curiosità e timore. Per Veronica, che si elevava al di sopra della massa di persone che la circondava e godeva della propria unicità, io potevo rappresentare un oggetto da possedere, utile per rimarcare la propria superiorità.

Ottenere la sudditanza di persone tutt’altro che brillanti, come i suoi compaesani, non si poteva considerare così onorevole. Conquistare qualcuno che veniva da una grande città, che possedeva maniere e cultura ben al di sopra della media del paese, sarebbe stato di gran lunga più soddisfacente.

A ciò, c’era da aggiungere la mia, tutto sommato, giovane età, avevo circa dieci anni meno di lei, e anche il mio aspetto, poteva ritenersi estremamente gradevole.

Pur non sperandolo, mi capitò di intuire che, negli sguardi che Veronica mi rivolgeva, potessero esserci pensieri di questo genere, che il suo desiderio di prevaricare e possedere tutto ciò che la circondava, potesse, in qualche modo, avvicinarsi alle mie fantasie di sottomissione.

Era un pensiero folle, qualcosa di assolutamente irragionevole, ma ciò nonostante, o, a maggior ragione, proprio per questo, le fantasie che Veronica mi suggeriva, mi apparivano ancor più suadenti e irresistibili.

La vita che conducevo lì, era molto semplice e discreta, a tratti, piacevolmente noiosa. Mi ero trasferito per una cattedra come insegnante di Italiano al liceo scientifico. Il lavoro sarebbe cominciato a settembre, ma, per potermi ambientare e sistemare con calma, avevo ampiamente anticipato la partenza.

Giunsi in quel piccolo paese, in una calda giornata di luglio. Non avevo molto con me. L’appartamento in cui avrei vissuto era già ammobiliato e fu sufficiente un unico viaggio per trasportare i libri e gli abiti che possedevo.

In principio, fui piacevolmente colpito dall’aspetto di quei luoghi. L’architettura del paese, serbava le tracce di un vecchio borgo medievale ed era circondato da una vegetazione rigogliosa.

Le strade erano silenziose, quasi desolate. Il sole caldo, feroce, toglieva il respiro con la sua arsura.

Passeggiavo a lungo, senza una meta, rischiando, talvolta, persino di perdermi tra quelle stradine tortuose.

Gli sguardi degli abitanti in cui m’imbattevo, esprimevano una malcelata ostilità, un fastidio che non sapevano contenere, che si stemperava solo nella morbosa curiosità che poteva generare il mio aspetto estraneo e alieno.

Vivere quella condizione di profonda solitudine, non era un’esperienza nuova, per me. Già durante l’infanzia, mi era capitato di trasferirmi, per alcuni anni, dalla città in un paesino simile a quello, vivendo una condizione di sradicamento, che mi aveva portato ad amare la solitudine, a non poterne fare a meno.

E per quei luoghi, così aspri e selvaggi, provavo sentimenti contrastanti, di odio e amore. Ne ero estraneo, ma sentivo che facevano parte di me.

Veronica era solita prendere il caffè, ogni mattina, a un piccolo bar sulla strada principale, quella solitamente adibita alle passeggiate serali e domenicali.

Fin dalla prima volta in cui la incrociai, fui colpito dal suo portamento maestoso e altero, dalla sottile e sorridente arroganza, con cui rispondeva ai rispettosi saluti che le rivolgevano.

Inizialmente, non mi avvidi del mio comportamento. Fu quasi con distrazione, casualmente, che iniziai a recarmi lì dove sapevo di trovarla, studiando i suoi percorsi e le sue abitudini, fino a diventare come un fedele che, quotidianamente, si reca a rendere omaggio alla propria divinità, che la segue passo dopo passo e la omaggia rivolgendo a lei, ogni pensiero.

Nel momento in cui ebbi coscienza di quanto fosse incontenibile il desiderio che nutrivo per lei, le mie fantasie di adorazione e sottomissione, avevano già preso il sopravvento. Ne ero ossessionato, incapace di liberarmi dall’immagine sorridente del suo sguardo che mi scherniva e che sembrava attendere che io mi prostrassi.

Quando Veronica mi rivolse, per la prima volta, la parola, fui tentato di supporre che avesse già intuito le emozioni che aveva suscitato in me e che, forse, era stata lei a generarle e imporle.

“Posso approfittare del tuo aiuto?”, mi chiese, con aria affabile e cortese, ma il suo sguardo mi scrutò con un sorriso beffardo.

La stavo fissando. Arrossii e compresi quanto invadenti e sconvenienti potessero essere gli sguardi che le rivolgevo e in quante occasioni lei avesse potuto sorprendermi in quell’atteggiamento.

“Certo”, balbettai, cercando di contenere e camuffare l’emozione e l’imbarazzo.

Nelle mani reggeva due buste della spesa e mi affrettai a liberarla dal peso che trasportava.

“Grazie. Solitamente chiedo al garzone di portarmela a casa, ma oggi non c’era e ho provato a cavarmela da sola”.

“Si figuri, Signora. Sarà un piacere, per me, essere il suo garzone”, azzardai.

“Sei molto cortese, più di quanto immaginassi”, disse, lasciandomi in sospeso, indeciso se ritenere il suo un sincero complimento o, piuttosto, un modo per rilevare quanto ridicolo fosse il mio contegno.

Senza aggiungere altro, m’invitò a seguirla e provai un sottile piacere per l’implicita umiliazione che mi suggeriva quella situazione. Era indubbio che, mentre Veronica passeggiava davanti a me, conducendomi fino al suo appartamento, io potessi apparire, a chi ci osservava, come una sorta di servo. E la vergogna, che avrei dovuto provare, restava in sordina, soverchiata dall’eccitazione che mi procurava vedere le mie fantasie prendere vita.

 

© Charmel Roses

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